Ma come fai a dire che… #1 – il personaggio

di Gianluca Calvino / Chiunque lavori nel settore editoriale in qualità di editor, consulente editoriale o redattore con qualifica di “lettore” si è ritrovato, prima o poi, a chiacchierare con qualcuno esterno all’ambiente che, con una certa aria di sufficienza, gli avrà detto “ma come fai a dire che quel romanzo non è buono? Magari a me piace… i gusti sono gusti!”.

Dunque, il primo consiglio che mi sento di dare ai miei colleghi (e compagni di sventura) è di respirare. 

A fondo. Ripetutamente. 

Evitare di ricorrere alla violenza, perché noi siamo pur sempre gente di lettere, categoria umana dalla quale non ci si aspetta una reazione inconsulta del tipo prendere un machete e fare a pezzi l’interlocutore urlandogli contro “e adesso ti piace ancora? Rispondi, TI PIACE?”.

Ecco.

Per quanto sia oggettivamente complicato, si cerchi di mantenere la calma, dopodichè si inizi a spiegare al tizio (o tizia) in questione quali sono i parametri da considerare affinchè un testo sia ritenuto più o meno idoneo a un’eventuale pubblicazione.

E sì, perché i gusti sono una cosa buona e giusta, ma attengono all’ambito dei lettori, non dei professionisti dell’editoria, i quali proprio in quanto tali devono metterli da parte, i propri gusti, se vogliono fare al meglio il lavoro per il quale sono pagati (si spera…).

In questo pezzo cercherò di spiegare – o meglio, di iniziare a spiegare, il discorso andrà avanti anche nei miei prossimi interventi – per quale ragione un testo può essere scartato da un lettore professionista.

Partiamo da un elemento chiave di qualunque narrazione che si rispetti: il personaggio.

Quante volte ci siamo innamorati di un personaggio? Tante. Quante volte ci siamo appassionati a un libro i cui personaggi sono impalpabili e un po’ mosci? Mai.

Non ci sarebbe quasi da aggiungere altro. Ma approfondiamo un attimo, tanto per.

La fortuna di una storia dipende dalla forza del suo protagonista (e talvolta anche dei personaggi di contorno). È talmente importante questo elemento narrativo che molti romanzi riportano già nel titolo il nome del personaggio centrale.

Pensiamo a tutti i libri della saga di Harry Potter, che si chiamano, per l’appunto, “Harry Potter e la pietra filosofale”, “Harry Potter e il calice di fuoco” eccetera.

Tutti i romanzi di formazione, poi, sono interamente centrati sul protagonista, e anch’essi lo dichiarano fin dal titolo: “Oliver Twist”, “David Copperfield”, “Il giovane Holden”, Tonio Kroger”, “Martin Eden” e così via.

In altri casi, il titolo del libro fornisce addirittura una prima idea della tipologia di personaggio che stiamo per incontrare, vedi “Il grande Gatsby” , “I dolori del giovane Werther” oppure il più filosofico “La versione di Barney”.

Ma anche se non c’è nel titolo, il personaggio porta avanti la storia, e il plot funziona in proporzione a quanto grosse sono le spalle del suo protagonista, che può rivelarsi talmente preponderante da diventare un seriale: non è un caso se la maggior parte dei giallisti di mezzo mondo, da Camilleri a Montalbàn, da Nesbo a Markaris, dalla Cornwell a Fred Vargas, utilizzano appunto il serial detective e devono a lui, soprattutto a lui, la propria fama.

Arriviamo pertanto al punto: “Come fai a dire che quel romanzo non è buono?”. Non lo è se i personaggi al proprio interno sono vuoti, privi di carattere, se sono delle semplici funzioni narrative e quindi – come si dice in gergo – non “funzionano”.

Si tratta di un parametro fondamentale e oggettivo, che risulta lampante a chi lavora nel settore ed è abituato a imbattersi nei personaggi, più o meno riusciti, quotidianamente.

Questa è una prima risposta che possiamo dare al profano rompipalle.

Ma non basta.

Questo è solo l’inizio.

Gianluca Calvino

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