Ogni traduttore è invece traditore a modo suo: intervista a Claudia Zonghetti

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Di Valeria Bove / All’inizio di giugno ci siamo raccapezzati per dare una definizione di traduzione. Ma non ci siamo fermati e, nel tentativo di capirci qualcosa in più, abbiamo chiesto a Claudia Zonghetti di rispondere a qualche domanda. 

Traduttrice di testi come Anna Karenina di Lev Tolstoj (per Einaudi, 2017) o Strade di Notte di Gajto Gazdanov (per Fazi Editore, 2017), Claudia Zonghetti nasce a Fano, nelle Marche. Si trasferisce poi a Venezia, dove studia con grandi luminari della lingua e letteratura russa in Italia, come Vittorio Strada e Julia Dobrovolskaja, che ci ha lasciati nel 2016. 

Oggi, Claudia Zonghetti traduce a tempo pieno e si dedica a una vasta gamma di generi e di autori, ma mette anche in guardia chi vuole intraprendere questa strada, invitando a non accettare facilmente compromessi perché “chi accetta spiccioli dice di valere spiccioli”. 

Nel ringraziare ulteriormente Claudia, vi segnaliamo che la ritroveremo in libreria a partire dal prossimo inverno con I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij (per Einaudi), Stalingrado di Vasilij Grossman (per Adelphi), I figli del Volga di Guzel’ Jachina (per Salani) e Simon di Narine Abgarjan (per Francesco Brioschi editore). 

Si sente spesso parlare di traduttori e traduttrici che lo diventano “per caso” o grazie a un incontro fortuito. Com’è iniziata la sua carriera?

Nel mio caso l’incontro fortuito è stato con la letteratura russa e Il cappotto di Gogol’, che sentii leggere da un professore di greco venuto a “tappare” un’ora a noi della seconda Linguistico del Liceo Raffaello di Urbino. Poi no, il resto è stato un caparbio inseguimento e una conquista lenta, ma ostinata di quello che volevo fare. Gli incontri, le persone sono stati determinanti, questo è poco, ma sicuro: Vittorio Strada e Julia Dobrovolskaja a Ca’ Foscari, Magda Olivetti e la SETL, la prima Scuola di Traduzione Letteraria in Italia. Poi Mario Guaraldi (che affidava traduzioni di classici a degli esordienti così spavaldi da accettare…) e Giovanni Tranchida, e poi Anna Raffetto (allora in Einaudi) e tutti i grandi, medi e piccoli editori con cui man mano ho lavorato.
Mi sia permessa una parentesi un po’ ruvida e prosaica: è essenziale considerarlo da subito un lavoro. Ed essendo un lavoro, come tale va preteso che sia retribuito. Chi accetta spiccioli dice di valere spiccioli. Chi accetta spiccioli sperando che diventino un compenso equo non può che prepararsi a essere rimpiazzato da qualcun altro che accetterà spiccioli a sua volta.

Qui ha descritto la traduzione come mestiere “che è caduco per definizione”. Cosa significa, per lei, oggi, tradurre?

Tradurre significa adoperarsi per far conoscere una cultura diversa dalla propria, significa avvicinare idee, usi e costumi diversi e del diverso allontanare la paura, credo. Siamo intermediari, costruttori di ponti, diplomatici, alla fine, e la responsabilità di questo compito non può che indurci a svolgerlo con grande scrupolo e cura (e cura è una parola-feticcio, per me). Questo nonostante la consapevolezza che saremo presto sostituiti, che siamo effimeri e caduchi, appunto, che la perfezione nel nostro mestiere non può esistere e che faremo sempre e comunque “quasi” la stessa cosa. Siamo, insomma, una delle possibili letture di un testo. Uno dei plurali di un’opera. Ma questo deve servirci da sprone, più che sconfortarci.

Cosa serve per diventare traduttori? E quali sono le difficoltà che incontra chi vuole fare questo mestiere?

Non mi azzardo a dare ingredienti e dosi certe. A me è servito (e serve) essere una lettrice voracissima di ogni genere letterario, è servito essere curiosa di tutto, origliare discorsi, compilare un dizionario insieme alla mia maestra (la già citata Julia Dobrovolskaja), scrivere scrivere scrivere fin dalle elementari. Poi la SETL (Scuola Europea di Traduzione Letteraria) di Magda Olivetti ha incanalato per la prima volta le nostre energie, “strutturandole”, arginandole e mettendoci “a bottega”, che è forse la cosa più importante.

Non si può negare che una predisposizione iniziale è indispensabile (come per ogni cosa o quasi, direi), ma poi il mestiere si impara facendolo. Ma se iniziare era già faticoso ai miei tempi, ora lo è sicuramente di più: i compensi per gli esordienti (e a volte non solo per loro) sono spesso offensivi e scoraggiano anche i più bravi e volenterosi a continuare. Ed è uno spreco. Un grandissimo spreco di talenti. È importante che gli editori e le associazioni di categoria (Strade, Aiti…) trovino il modo di arginare insieme un certo malcostume, ma è ancora più importante innestare dal basso un circolo virtuoso che porti ognuno di noi a rifiutare con decisione condizioni irrispettose, sapendo che nessun altro le accetterà, alimentando con ciò la corsa al ribasso.

Sappiamo che i traduttori hanno la naturale necessità di interfacciarsi con l’autore del testo su cui lavorano. Nel caso di un classico di un’altra epoca, qual è e come si sceglie il punto di riferimento?

Lo sa che io questa necessità, invece, non è che la senta poi così tanto? Io maneggio una – come chiamarla? – emanazione dell’autore, che non ha bisogno della sua presenza per essere tradotta. Certo, è (quasi) sempre un grande piacere conoscere di persona i propri autori, con alcuni si è addirittura creata un’amicizia vera, ma devo dire che la traduzione è stata solo un pretesto, non la causa. Quanto ai classici, il punto di riferimento è sicuramente la letteratura intorno a un’opera, gli studi accumulati nei decenni. Ma senza concedere loro di vivisezionare il testo, scarnificandolo.

Lei ha tradotto, tra gli altri, La Russia di Putin di Anna Politkovskaja (Adelphi, 2005) di cui ha parlato anche qui. Com’è stato confrontarsi con un testo tanto complesso e di impatto?

La stavo traducendo quando un’amica giornalista mi chiamò per dirmi che era stata ammazzata (“uccisa” non rende l’idea…). Vi lascio immaginare… Ancora oggi una copia della prima pagina che le dedicò la Novaja Gazeta mi guarda dalla libreria che ho di fronte. Avere tradotto la coscienza di una nazione è stato un onere, ma anche e soprattutto un onore. Le pagine su Beslan mi commuovono ancora. E mi straziano. 

A cosa sta lavorando ora? La ritroveremo presto sugli scaffali dei grandi classici russi?

Sono stati due anni di impegno strenuo. Nel corso del prossimo inverno usciranno I fratelli Karamazov  di Dostoevskij (per Einaudi), Stalingrado di Vasilij Grossman (per Adelphi), I figli del Volga  di Guzel’ Jachina (per Salani) e Simon di Narine Abgarjan (per Francesco Brioschi editore). Dopo di che, spero di dedicarmi solo ai microracconti… Scherzi a parte, come ogni volta spero con tutto il cuore di avere fatto del mio meglio per conservare a ognuno la sua voce. Aspetterò con la solita ansia il giudizio dei lettori.

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