di Serena Matarazzo / Ma a cosa serve la filologia? Un viaggio tra scleri d’autore e dissing letterari.
“Mamma, da grande voglio fare il filologo”.
Ok, credo che mai nessuno abbia pronunciato una frase simile in tenera età. Magari qualcuno voleva fare lo scrittore. O il traduttore. Ma il filologo proprio no. Tra i mestieri dell’editoria non credo sia proprio il più gettonato.
Anche perché, diciamocela tutta, ma a cosa serve la filologia? Ogni giovane umanista si sarà posto almeno una volta questa domanda durante il suo percorso di studi.
E allora, non giriamoci troppo intorno: la filologia è una roba per autentici masochisti. O, come direbbe il Prof. Francesco Benozzo, per complottisti.
L’approccio allo studio della materia per me è stato traumatizzante. Tra stemmi, codici, archetipi e altre diavolerie simili si è manifestato quasi subito quell’inesorabile sentimento di rifiuto della materia, accompagnato da una sfilza innumerevole di: “Ma perché?”, “Ma chi me l’ha fatto fare?”, “Ma perché non ho scelto di addomesticare Alpaca in Perù?”.
La necessità di condividere i miei dolori e le mie pene con qualcuno, mi ha spinto a fare l’unica cosa ragionevole: cercare su Facebook gruppi di similia perché, come dicevano i latini, Similia similibus curantur.
E cercando cercando, mi sono imbattuta nella pagina “Filologi e studiosi cattivi” ed è qui che ho iniziato a capire che c’è anche un lato simpatico della filologia, fatto di scleri d’autore, dissing letterari, frecciatine e complottismi vari.
I motivi per cui sclerare, per uno scrittore, sono veramente tanti. Possono andare dal blocco dello scrittore fino al senso di insoddisfazione perenne legato alla forma dell’opera. Pare che Gadda, proprio in un momento di sclero, abbia rigettato un suo manoscritto. «Mi disgustai e lo diedi alle fiamme», così dice lui stesso.
Pare invece che Montale fosse un vero maestro in fatto di frecciatine.
Ad esempio, qui è dove traduce a modo suo tale Tiverton:
«A parer suo, c’è in Lawrence una mancanza, un lack of social training (tradurremmo con un po’ di sforzo: “una certa intrinseca cafonaggine?”) che spiega tutte le sue deficienze».
E qui è la recensione di Montale a Fuochi in Novembre di Bertolucci…. e scusate lo sternuto!
«E ora non chiedetemi che visione della vita abbia questo Bertolucci, e non cercate in lui neppur l’ombra di una parola grossa, neppure il desiderio d’una (scusate lo sternuto) Weltanschauung».
Queste frasi piccate ben si adattano a quel fenomeno generalmente musicale noto come dissing. Per chi non lo sapesse, il termine dissing nasce nella cultura hip-hop e viene utilizzato per definire quello scontro in musica tra cantanti, con l’obiettivo di prendere in giro o insultare il rivale.
Di grandi scrittori che infangano altri grandi scrittori ce ne sono a bizzeffe. Un elenco esaustivo è impossibile e allora qui vi riportiamo alcuni dei più divertenti:
Mark Twain vs Jane Austen: il sito inkorsivo ci ricorda la polemica di Mark Twain Vs Jane Austen. L’affondo di Twain è davvero affascinante, visto che la Austen, all’epoca del diss, era morta già da un po’. Ma il padre di Tom Sawyer non si è fatto frenare da questo piccolissimo inconveniente, affermando: “Spesso ho provato a scrivere di Jane Austen, ma i suoi libri mi fanno diventare matto a tal punto che non riesco a nascondere la mia furia al lettore; perciò devo fermarmi ogni volta che comincio. Tutte le volte che leggo Orgoglio e Pregiudizio mi viene voglia di disseppellirla e colpirla sul cranio con la sua stessa tibia”. La tocca piano.
Da librieparole recuperiamo un’altra celebre disputa: quella tra Lord Byron e John Keats. Pare che tra i due non scorresse per niente buon sangue. Byron considerava Keats un poeta cockney, capace solo di scrivere versi da quattro soldi. E anche Keats non gliele mandava di certo a dire al povero Byron, il cui talento era “un vero e proprio bluff”. Altro che aplomb inglese!
E grazie al blog de ilsuperuovo scomodiamo il Sommo Poeta Dante, che mal digeriva la “maniera antica” di fare poesia, tipica di Guittone D’Arezzo. Come dimenticare il passo del “de vulgari eloquentia”, dove Dante esprime tutto il suo dissenso riguardo la poesia dell’aretino:
«Cessino, i seguaci dell’ignoranza d’esaltare Guittone d’Arezzo e certi altri che, nei vocaboli e nei loro costrutti, non perderono il vezzo di imitare la plebe».
In alcuni casi, anche all’interno delle note in apparato possiamo trovare delle autentiche chicche. Ad esempio, chissà quale autore avrà pensato di giustificare quanto rivelato nel testo dicendo che “gli è apparso in sogno, una volta”.
Dato che tenzoni, flame e battibecchi sono un bel modo per approcciare alla filologia, lasciamo aperta la possibilità di segnalarcene tanti e tanti altri, magari al motto di #ludendodocere.
Aspettiamo le vostre segnalazioni!